Gabriele Mattera, Uomini in rosso

Istituto di Cultura francese Le Grenoble - Napoli

16/10/2003 - 04/11/2003


mostra gallery testi critici catalogo

Uomini in rosso

Massimo Bignardi

marted́ 15 ottobre 2002

Uomini in rosso 

            Nei miei occhi si riflette la luce di figure sottratte al tempo e fermate nel silenzio dettato da un saturo rosso cadmio: sono le figure che Gabriele Mattera fa affiorare, avanzare lentamente da lontane prospettive, tessendo la trama di un racconto, una sorta di intimo duetto fatto a voce bassa, secondo un copione, quello della pittura, ove i segni diventano forme, figure, gesti, movimenti, immagini, in pratica suggestioni di un viaggio senza ritorno, ovvero scoperta di una qualcosa che è già dentro di noi. È quella  luce, carica di inquietudine, riflessa dalle grandi tele dipinte da Mattera in questi ultimi anni, tele che, la scorsa estate, scandivano la circolare planimetria dell’antica chiesa del Castello Aragonese di Ischia, poste sulla circonferenza come icone di un laico percorso, di un tragitto disegnato, passo dopo passo, dalla pittura, dalla sua necessità ed urgenza di dare al mondo ciò che manca ad esso per essere quadro, dunque, un’ulteriore realtà.

            Grandi tele, proposte senza ricorrere alla “seduzione” della messa in scena, seguendo la traccia della coerenza, rifiutando ogni cronologia, qualsiasi appiglio che poteva far ritrovare una genesi, ossia l’evoluzione dell’intera esperienza di Mattera. All’artista interessava, ed interessa ancora, che si percepisse, innanzitutto, la difficoltà che la pittura di “figure” pone oggi, in anni inquieti e sobillati dai processi digitali, di come, cioè, il lavoro sulla sua sintassi apra nuove traiettorie. Non è tanto il risultato formale ad attrarre la mia attenzione, anche se va detto che queste tele testimoniano di un alto dettato pittorico, bensì la riflessione che esse avviano, sul loro essere principalmente istanza concettuale. Riflettere sul “rosso”, sulle tensioni che evoca, sembra cosa già vista o già fatta, eppure quanta novità, quanta modernità, quanto “mondo” affiora da queste tele: il mondo, quello dei drammi e delle scoperte, delle cadute e dei trionfi, è tutto lì, con le sue ansie, le sue stanchezze, soprattutto la sua stanchezza astratta. Diceva Pessoa che quest’ultima è il male che attanaglia la modernità, è «un peso della consapevolezza del mondo, una impossibilità di respirare con l’anima», Le figure, che  la pittura di Mattera “scorge” in quei luoghi privi di coordinate spazio-temporali, respirano ancora con l’anima, sono, cioè, presenze che agitano l’emozione, rivelano la bellezza viva della pittura: l’emozione – ricordava Sartre - «non è un incidente, è uno dei modi che ha di esistere la coscienza…».

            La necessità, in questo contesto, nel quale si tenta di ricostruire una spaccato monografico specificatamente dedicato al Ciclo rosso, come prontamente Vitaliano Corbi tempo addietro ha definito questi dipinti, non è di trovare il sottile filo che li lega e li posiziona nella complessiva esperienza condotta finora da Mattera, cercando una certa consequenzialità nel suo lavoro di artista. Il punto è spiegarsi questa pittura, la sua sintesi, ossia come lo sguardo dell’artista si allunga sulle dilatate superfici invase da quel luminosissimo e infuocato colore. Beninteso, Mattera non guarda attraverso un filtro, tantomeno cerca di fermare le timide tracce di figure che abitano l’emotivo spazio del colore, qual è questo specifico rosso così densamente ottico-sensibile, ovvero carico, avrebbe detto Itten, di una forza psichico-morale, di una sorta di simbolismo che non è esangue e intellettualistico.

            Il colore, inteso dall’artista quale sostanza spirituale della pittura, è il punto sul quale riflettere, spostare l’attenzione per poter percepire la difficile congiuntura nella quale è “naufragata” l’esperienza di Mattera. Naufrago, però, nel modo e nelle circostanze consigliate da Prévert, vale a dire di chi si lascia volutamente scivolare in quello spazio-luogo del mistero, dell’emozione, di chi ha deciso di staccare il proprio tempo da quello del giorno e della notte.

            Un colore “concettuale”, dunque, proposto come registro entro il quale avviare una nuova considerazione sulla pittura: «Solo a chi lo ama – scriveva Itten – il colore manifesta tutta la sua bellezza e la propria intima essenza». L’artista ischitano lo ha ben compreso, anche se, fatta eccezione di alcune opere giovanili (penso ai pescatori), o delle solari tele sulle quali vibrano i bianchi di tende avanzate come ulteriori celebrazioni dell’enigma della visione, la sua aria di appartato osservatore della mondana ebbrezza che sobilla l’arte dei nostri giorni non gli ha concesso deroghe. Anzi ha spinto la sua analisi a leggere lo spazio, a percepirvi i segni di nascoste prospettive entro le quali incontrare l’impalpabile corpo di figure (forme), sottratte al destino a alla realtà. Sottratte, cioè, alla referenzialità spazio-temporale della visione, per vestire, invece, gli abiti di presenze che abitano sulla soglia della pittura, vale a dire fra l’immaginario e l’emozione che esso sollecita. La forma in arte, rilevava Lawrence, «è la presa di coscienza dei rapporti tra vari oggetti ed elementi nel flusso creativo»: presa di coscienza che può interpretarsi anche come autorivelazione, propria, cioè, di chi ha imparato a vedersi e che adesso – seguendo ancora le annotazioni sull’arte del celebre autore de L’amante di lady Chatterley – è diventato «ciò che vede e si crea in base all’immagine che ha di sé». In questa serie di tele Mattera consegna nuove figure e nuove forme alla densa espressività di uno spazio rosso: è questo un luogo ove esse trovano una misura, una vitalità che prende maggiore sostanza man mano che l’artista sottopone il registro pittorico ad una sorta di riduzione linguistica, contenendo al minimo i passaggi dei toni, le dilatazioni cromatiche, gli schemi imposti dal contrasto di simultaneità, ossia quel «fenomeno – è ancora Itten a farci da guida – per cui il nostro occhio, sottoposto a un dato colore, ne esige contemporaneamente, il complementare, e non ricevendolo se lo rappresenta da sé».

            Il campo pittorico, che inizialmente (apparentemente) sembrava vuoto, si popola di energie, di presenze che si sommano con grande velocità, a testimoniare il destino, il tempo futuro che la pittura impone.

 

Napoli, Ottobre 2002

 

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