Gabriele Mattera . Opere 1986 - 1992

Civici Musei di Reggio Emilia

17/04/1993 - 09/05/1993


mostra gallery testi critici catalogo

Gabriele Mattera

Claudio Spadoni

venerd́ 29 gennaio 1993

Gabriele Mattera 

Ci si chiede con sempre maggior frequenza se la condizione della pittura, oggi, non sia quella d’una resistenza, tenace ma quasi disperata , ai dettati di una modernità – o di una postmodernità, come s’è convenuto di chiamarla- che pare ormai insensibile ad ogni tradizione che non sia la propria. La «tradizione del nuovo», appunto, secondo la felice formula di Rosenberg, e che ha fatto del cosmopolitismo linguistico instaurato dalle neoavanguardie la scelta vincente. Ci sarebbe da dire delle strategie, del potere promozionale, che governano quasi incontrastati il tutto. Ma sono discorsi, alla fine, oziosi. Anche per questo, lamentava Jean Clair in un suo noto pamphlet, «la pittura, alla fine di questo nostro secolo, va male». Va male per le difficoltà oggettive che incontra come pratica storica, insidiata dalle immagini e dai mezzi tecnologici; e perché s’è persa, nell’avvilente accademia dell’avanguardia ormai generalizzata, l’idea di una qualità della pittura stessa, e dunque di valore. Così che certi recuperi, certe nuove insorgenze, soprattutto nei primi anni Ottanta, che avevano alle spalle precedenti concettuali, sono stati interpretati, e non a torto, proprio come esigenze di ritrovare comunque un valore a cui ancorare finalmente la pratica artistica, in un tempo di crisi di valori. Che poi, in molti casi ci si sia trovati di fronte non già alla pittura ma ad una sua parodia, ad una sua maschera, o foss’anche ad un suo riciclaggio manieristico ambiguamente sospeso tra il futile ed il patetico, tutto ciò nulla toglie a quel senso della perdita che ci sembra uno dei segnali più inquietanti di questi ultimi tempi. Perdita dell’autentico – non saprei come definirlo in altro modo – risucchiato nel commercio quotidiano del banale, del futile, del convenzionale. Che non necessitano di grandi interrogativi, che non fomentano dubbi non contingenti, che non comportano l’azzardo dell’inattualità. Quell’azzardo che, nonostante tutto, qualche pittore affronta ancora giorno dopo giorno, consapevole, forse come di una sfida o forse come un destino cui non ci si sa sottrarre. O come un’avventura totale che vale ancora la pena di vivere, perché in essa persistono suggestione mitica ed esperienza viva, concreta, eredità storica e coscienza del proprio tempo.

Questa mi sembra la condizione di un pittore come Gabriele Mattera. E direi proprio la sua condizione d’oggi, di un appartato ma vigilissimo artista che ha alle spalle oltre quarant’anni di lavoro. Un lavoro che si è sviluppato con una sua meditata cadenza, con ragioni e tempi che non erano quelli imposti dalle vicende esterne, dall’alternansi e dal sovrapporsi delle tendenze dominanti. E meno che mai dai dettati ufficiali che hanno avuto parte non trascurabili nelle «oscillazioni del gusto» degli ultimi decenni. Già questo mi sembra una garanzia sufficiente, intanto, per la tensione morale che ha sorretto il suo percorso. So bene che è arduo scomodare, oggi, questa parola che pare destituita d’ogni fondamento, che insomma non si sa davvero quale significato, quale importanza possa rivendicare. E tuttavia proprio in questa tensione penso che i pittori come Mattera possano continuare a credere e a trovare la ragione prima del proprio lavoro. E non è questa, in fondo una ricerca continua, irrinunciabile dell’autentico, di uno scandaglio insistito del rapporto – quale che sia – che lega l’arte alla vita? Del resto, basta scorrere le immagini della pittura di Mattera di stagioni ormai lontane. Immagini d’una vena narrativa intrisa di umori espressionisti, dove magari la carica di partecipazione poteva risultare d’una evidenza insolita per il clima culturale di quel tempo. Penso a certe figure di «Pescatori», tozze, stagliate, in primo piano con tutto il loro pesante ingombro fisico; con quei volti ruvidamente scavati nella materia pittorica, con quelle mani enormi, pesanti, che sembrano zavorrare l’intero corpo. Qualcosa tra il patetico e il grottesco, che forse non sarebbe dispiaciuto a Dubuffet, ma che portano la memoria, soprattutto, dei fremiti dell’espressionismo nostrano, posto che così lo si possa chiamare. Da Viani a certo Sironi, per intenderci, ancor più che al versante realista del dopoguerra. «Ciò che mi sta a cuore è l’uomo – scriveva con sconcertante semplicità Mattera – e particolarmente quel tipo d’uomo che è il pescatore d’Ischia» Ed era inevitabile ricondurre quella pittura, quella narrazione aspra e ingrata, ad un movente tanto esplicito e, appunto per questo, così esposto ad una interpretazione letteraria di racconto sociale. Il mondo dei pescatori di un tempo, certo, con tutto quello che ne consegue; «la sua agonia che si sta consumando lentamente sotto i nostri occhi»; «… i suoi severi impasti monocromatici, i suoi colori scuri, che trovano nelle terre lo strumento espressivo più efficace per rappresentare il disfacimento di una realtà che non sarà più», secondo le parole di Luciano Russo. Nessun dubbio che l’intonazione di quel lungo ciclo di opere rispondesse ad un’accorata osservazione di una realtà così vicina a Mattera. Così sentita da diventare un motivo quasi ossessivo, non già un pretesto. E tuttavia mi parrebbe riduttivo fermarsi a tale constatazione. In queste figure di Mattera, come bloccate in una propria, popolaresca e paradossale ieraticità, patetico-grottesca, appunto, si coglie un lavorìo formale, uno scavo insistito e perfino impietoso alla ricerca di un’essenzialità, di un’immediatezza di corrispondenze, da autorizzare, crediamo, altre argomentazioni. Pare quasi che Mattera reagisca al clima artistico diffuso, in quegli anni, tra una chiassosa e invadente iconografia da mass media, recuperi enfatizzanti di un’oggettualità del quotidiano, e i rigori razionalistici, analitici, le riduzioni ad una progettualità o ad elaborazioni tutte mentali. Una reazione – non so quanto intenzionale, ma certo evidentissima – che punta invece sulla pittura la più carica di corrispondenze esistenziali. Ed ecco che le parole stesse dell’artista, in apparenza semplici e spoglie – «ciò che mi sta a cuore è l’uomo» – acquistano il senso di un rovello che tocca insieme il sottofondo morale e il tramite linguistico. Caricando quasi espressionisticamente gli accenti, Mattera cerca il massimo di forza rappresentativa e di tensione morale, di evidenza e di essenzialità dei mezzi pittorici, con la sostanziale monocromia degli spessori matrici.

Se si insite su questo punto è perché rappresenta una fase fondamentale, penso, nel percorso di Mattera, che qui saggia le possibilità espressive di una figurazione come ricondotta ad uno stadio elementare. Quasi un ritorno all’identificazione mitica di materia terra carne, di ritualità del segno, del gesto che incide, che plasma. Un atto pittorico, insomma, che si libera di ogni compiacimento, di ogni piacevolezza, di ogni ostentazione di mestiere, per farsi quasi «brutale» come per un’oscura necessità. Ed è ben comprensibile, allora, che dopo questo affondo la pittura di Mattera abbia gradualmente riguadagnato non dico una solarità che mi sembra gli sia sostanzialmente estranea, ma una visione più distesa,più pacata. Che non vuol dire affatto depurata dall’inquietudine, anzi da un’ansia che, seppure filtrata, traspare comunque nel ciclo successivo delle «Bagnanti». Se nei «Pescatori» Vitaliano Corbi aveva visto «gli ultimi esemplari, certo un po’ sfiancati e smarriti, di un’antica stirpe italica, discesa da Giotto fino al Nostro Novecento» – ed era un’osservazione lucidissima – nelle «Bagnanti» «protagonista della pittura di Mattera è diventata la durata insostenibile, ossessiva di una luce meridiana …», «… è l’aria caliginosa d’una interminabile, torrida giornata d’estate, che avvolge tutto nel suo spessore umido, e assorbe la luce, la filtra e la rimanda con mille riverberi che abbagliano e sfocano la vista». Ecco, dunque, che si fa strada un’annotazione di passaggio, di ambiente,  ma con l’opportuna precisazione che si tratta di «qualcosa di molto lontano dal genere pittorico del paesaggio». In realtà, la variazione tematica è indicativa di un processo di trasformazione anche linguistica che tocca le corde di una più sottile elaborazione mentale, diciamo pure di meditazione. La spessa materia dei «Pescatori» si scioglie fino alla rarefazione, le immagini sono impaginate secondo schemi sempre più semplici e non aneddotici, direi proprio oltre le tipologie del naturalismo, di una mimesi della realtà. La quale è certo evocata, ma infine allontanata dal motivo contingente, come sospeso in un’atmosfera straniante.

«Sulla soglia dell’assenza», scrive ancora Corbi. Quasi un rovesciamento di pesantemente fisico dei «Pescatori». Nessuna precisa identità caratterizza queste nuove, sfuocate figure che giungono a far tutt’uno con l’ambiente nel quale sembrano galleggiare come diafani relitti o involucri. Corpi senza carne e forse senz’anima; o meglio simulacri, apparizioni, labili memorie di una presenza umana, lontana, sempre più perduta in uno spazio senza confini, in un tempo indefinibile. Ma non è anche questa una meditazione che si scioglie in un’intonazione elegiaca? La luce che inonda uniformemente la composizione, che diventa valore cromatico dominante, è essa stessa un’indicazione per nulla meteorologica, ma di stato d’animo. Dunque, d’una luminosità malata, o per meglio dire intrisa di malessere. Ed eccoci, finalmente, alla stagione delle «Tende», preannunciata già nell’81-82 con un dipinto come «La tenda blu». Finalmente, dicevo, perché qui Mattera, pur nei passaggi consequenziali, imprime una svolta alla sua pittura. Un rinnovato vigore, stagnante con la sua luce «malata» sulle spiagge. È come se l’artista riattizzasse i colori, muovesse l’impianto formale con una gestualità certo non frenata ma vibrante. Da far pensare ad una suggestione per casi singolari della pittura postinformale, per intendersi, dove una traccia, un nucleo figurale prendeva corpo dall’indistinto. Per gli artisti d’allora si trattava di una riemersione lenta, sofferta, verso ipotesi di «figurabilità» – così venne definita dal Calvesi – che poteva anche comportare il tentativo di ristabilire in qualche modo una «relazione». Col mondo, con la società magari, attraverso una ricostruzione dell’immagine, della struttura narrativa, pur senza ricorrere all’usurato formulario realista, e insomma alle convenzioni linguistiche della vecchia figurazione. Che Mattera abbia come riannodato i fili di certo postinformale, può significare, intanto, che il suo procedere nella pittura ha continuato a seguire una via autonoma rispetto alle rotte ufficiali, obbedendo a proprie ragioni, a proprie necessità espressive non barattabili con la gratificazione di sentirsi allineato. Il suo, insomma, si dimostra ancora una volta un lavoro che procede in una meditata crescita su se stesso, in uno sviluppo consequenziale a certe premesse di una pittura che intende farsi carico di valori evocativi, allusivi ad una condizione umana. Una pittura di complessi «significativi» intellettuali, e morali nel senso filosofico del termine. Una pittura, dunque, che muove da un pensiero dell’esistenza che sembra non lontano dal tema heideggeriano – come è già stato notato da Corbi – dell’«essere per la morte». Non stupisce, allora, che Mattera abbia rivolto la sua attenzione proprio a quel clima artistico che era stato lo specchio più fedele delle filosofie dell’esistenza – l’Informale, appunto – e al suo laborioso passaggio a possibilità figurali meno caricate di tragicità o di esasperato vitalismo, ma ugualmente risucchiate da quelle problematiche. «L’artista batte, come accade spesso in altri – scrive ancora Corbi – sul motivo del disfacimento, della corruzione delle cose o del loro inarrestabile trasmutarsi. Egli avverte intorno ad esse, alla loro impassibile persistenza, un vento sottile ed arido che le forza lentamente sul confine del nulla; e sa che quel confine, prossimo o remoto che sia, è l’unica certezza su cui fonda l’esistenza dell’uomo».

Ecco allora la tenda, vuoto involucro, «placenta o sudario», che evoca la dimora provvisoria, instabile dell’uomo, il suo viaggio e il suo riposo, il suo raccogliersi e il suo dibattersi fra gli oscuri meandri della psiche, e il suo aprirsi alla luce, al mondo esterno. La tenda come figura, infine, di quel «falso movimento» che dal luogo della nascita a quello della morte, costituisce l’illusione tragica dell’esistenza. Come un’impronta di luce, Come una fetta di luna in una notte d’inverno, Come una medusa, Come una sacca di carne; i titoli che insistono sull’ambiguità dei riferimenti. Naturalistici, per così dire, e tuttavia gravidi di allusioni, di corrispondenze profonde. Le immagini dirette, e inequivocabili, dei passati cicli pittorici, hanno lasciato il campo a qualcosa di più instabile, sfuggente, ad un simulacro di realtà densamente fisico, certo, ma ugualmente aleatorio come identità. Qualcosa che può richiamare certe opere postinformali, poniamo, di un Moreni; del Moreni delle Baracche, delle Staccionate, ma anche dei Cartelli e poi di certe Angurie, dove il pretesto oggettuale volgeva subito in «altro». Si potrebbe parlare di un naturalismo interiorizzato, se il termine non si prestasse ad un’interpretazione riduttiva e anzi fuorviante. Certo è che da un’immagine naturale, comunque la si voglia intendere, Mattera sembra non voler prescindere come dato di partenza oggettivo, come termine di rapporto emozionale, come condizione della coscienza su cui agiscono la visione e la memoria, l’assillo del presente e il tempo come durata della coscienza stessa. Fino a giungere ad accenti perfino visionari in certe immagini che s’accompagnano come inquietanti apparizioni.

In questo senso si è parlato, appunto, di una condizione «notturna» della pittura di Mattera. Ma dove tutto è talmente sentito, interiorizzato, talmente carico di partecipazione di ricondurre alfine ad un rapporto in abolibile col dato naturale. Che resta, nella sua fisicità, nella sua drammaticità, palpitante bellezza, ancora spoglia, involucro, ma pur sempre materia e corpo della metafora esistenziale. Materia e corpo di una pittura che tenta le più complesse corrispondenze forzando l’ambiguità dell’immagine, la sua qualità di metafora. Ed ecco gli incendi dei rossi, i blu notturni, i rosa carne, i verdi incupiti e i gialli crepitanti. Virati, ispessiti di materia, o sciolti fino alla trasparenza; toccati da zone d’ombra, contaminati o sfatti, o d’un subito accesi da una nuova luce, portati ad una nuova fragranza; attraversati da vibrazioni, sommovimenti, o come stagnati in un’atmosfera ferma, malata. Fatti pittorici, s’intende, ma di una pittura che attraverso la propria voce intende farsi più che mai voce della coscienza.

 

Gennaio 1993     

 

 

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